bilingual blog

this is a bilingual blog written by a single mom who is like many others but who somehow is also different :-)

sabato 5 ottobre 2013

la linea blu

beep – beep – beep – beep – beep – beep - …

ciao, sono io. (che saluto cretino… certo, se solo tu potessi farlo, lo vedresti da te, invece devo farmi bastare la mia voce e sperare che, come sostengono alcuni, tu mi senta… diciamo che ci voglio credere, altrimenti non sarei qui.  e poi dirti “ciao, sono Marco” mi sembrava persino più cretino…). lo so, è venerdì e ti chiederai che diavolo ci faccio qui dal momento che sai benissimo che dovrei essere a Zurigo a tenere un workshop per presentare il nuovo prototipo (e invece ho praticamente imposto agli altri che si arrangiassero senza di me per una volta, che io dovevo venir qui. non l’hanno presa bene, in effetti. ma che si fottano… questo però non te lo dico, sennò t’incazzi di brutto e non credo proprio sia il caso, adesso, di farti arrabbiare…). è che al palazzetto hanno avuto inspiegabilmente un grosso guasto all’impianto elettrico, ieri e, insomma, è stato tutto rimandato a non si sa bene quando, un casino. (che scusa idiota… devo solo sperare che tu te la beva… e quanto al senso di colpa che mi si è appena parato davanti a mo’ di spettro per averti spudoratamente mentito ci farò i conti dopo, fuori di qui…).

beep – beep – beep – beep – beep – beep - …

sai, prima ho visto Giorgio. ti saluta. ha detto che, se ce la fa, passa più tardi. lo so, ti aspettavi che venissimo insieme. è che lui, adesso, proprio non poteva. doveva stare a casa ad aspettare (che diamine mi invento adesso?) il tecnico del computer. gli si è impallato e rischia di perder tutti i dati, sai com’è fatto, no? è agitatissimo. (questa scusa fa quasi meno schifo di quella di prima, forse sto migliorando. è che mi han spiegato che, in situazioni come questa, bisogna stare molto attenti a quel che si dice. e io preferisco non farti sapere che qui dentro fanno entrare solo una persona alla volta, per una mezz’ora scarsa, per di più. tanto non credo farai caso allo scorrere del tempo, purtroppo…)

beep – beep – beep – beep – beep – beep - …

ti trovo bene, sai? (dio, stavi certo meglio *prima*… e poi quel dannato monitor ti spara un getto di luce bluastra dritto in viso, rendendolo forse persino più livido di quanto non sia realmente. ma è chiaro che anche questo mica te lo posso dire. e non ti posso manco dire che non so se mi sia più penoso guardarti in faccia, mentre ti parlo, o seguire con gli occhi quella fottuta linea blu che si muove ritmica sullo schermo…)

beep – beep – beep – beep – beep – beep - …

ah, quasi mi dimenticavo! Giorgio, che da quando hai tirato fuori l’idea di noleggiare un comet e farci 15 giorni alle Incoronate, a giugno, non sta più nella pelle. pensa che, anche se mancano ancora due mesi, è già andato da Paolo a prendere le carte nautiche e domani ha appuntamento in darsena col tipo che noleggia la barca. però poi basta. ha detto che per decidere l’itinerario e tutto il resto aspettiamo te. quindi, anche se mancano due mesi, vedi di darti una mossa. che lo sai poi, come va a finire, tra noi? sembra che siamo sempre d’accordo su tutto. e invece salta fuori sempre qualcosa su cui ci perdiamo giorni e giorni a discutere… (mica dovranno passar due mesi così, eh? merda. non ci voglio neanche pensare…)

beep – beep – beep – beep – beep – beep - …

(maledizione, è già passata mezz’ora. mi sa che mi sbattono fuori…) senti, io adesso vado. che con tutto ‘sto parlare non vorrei stancarti troppo. torno domani. magari ti porto qualcosa da leggere (te lo leggo io, ma preferisco lasciarti l’illusione e credere che possa farlo tu…), sai, ho preso giusto in questi giorni un nuovo libro di racconti brevi niente male, son certo che ti piacerà. allora io vado, eh. a presto. (“ci vediamo” non te lo dico. che mi sembra di prenderti per il culo. tu però, se ti riesce, nel frattempo, aprili gli occhi, Andrea, cazzo, dai!...)

beep – beep – beep – beep – beep – beep - …


giovedì 3 ottobre 2013

NY Blues

Grazie al cielo la riunione coi francesi si era conclusa prima di quanto avesse previsto. Era persino riuscito ad inventarsi una scusa su due piedi per risparmiarsi di dover presenziare anche a cena. Ne aveva avuto abbastanza del loro inglese stentato, delle battute insipide alle quali, per buona creanza, era costretto a ridere, dei loro intercalari sommessi e dei pomposi aneddoti sul vino che, a sentir loro, al di fuori della Francia altro non era che mosto fermentato male. Aveva detto loro che quella sera, a casa, avrebbero avuto ospite un cugino dell’Oregon che, poveraccio, aveva appena perso la moglie. Era davvero mortificato, ma doveva proprio andare. E, infatti, se ne andò.

Decise, una volta lasciato l’ufficio, di fare due passi. Aveva assoluto bisogno di snebbiarsi il cervello e di una buona dose di aria fresca, prima di rientrare in quella che, ormai, più che una casa gli pareva una prigione. Immaginava già l’espressione vuota e schifata di suo figlio seduto a tavola di fronte a lui e la cortesia forzata di Ellen, che avrebbe come sempre simulato un che di interesse per la giornata lavorativa del consorte e, con quattro frasi buttate lì a casaccio, avrebbe tentato – peraltro invano – di intavolare una conversazione che durasse più di nove minuti, il loro tempo standard, ormai.

Il sole era già tramontato da un pezzo e il colore del cielo stava lentamente virando al blu intenso che precede il nero della notte e, specchiandosi nelle acque dell’Hudson, tingeva di riflesso e di mille sfumature le luci, il ponte e le facciate dei grattacieli tutto attorno. Sebbene fosse molto stanco, a Eric non sfuggiva nulla. Anzi, mentre camminava in direzione della riva del fiume, gli pareva che tutto quel blu avvolgesse anche lui, fuori e dentro, fino a raggiungere suoi più remoti pensieri. Di quando in quando, alzava lo sguardo al cielo, sperando di scorgere la luna.

Era sul punto di attraversare quando, dal finestrino abbassato del taxi fermo al semaforo accanto a lui, gli giunsero all’orecchio quelle note. E da lì, per direttissima, scesero giù, in profondità, passandogli al centro del cuore e attraverso lo stomaco per poi spingersi ancora più giù, fino a toccargli le viscere.

Blue moon
You know jut what i was there for
You heard me saying a prayer for
Someone I really could care for 

«Kate». Gli ci volle meno di una frazione di secondo perché quel nome riaffiorasse piano alle sue labbra. Quando la strada fu libera, raggiunse la panchina sull’argine del fiume, in quel punto preciso di New York che persino chi non c’è mai stato conosce come le sue tasche, tante sono le volte che è stato inquadrato nei film. Il blu intorno si andava pian piano scurendo, senza smettere di lasciare la sua scia sopra le cose. E, Eric ormai ne era certo, dopo aver sentito quella canzone, anche dentro di lui.

Quanto tempo era passato? Non ne aveva idea. O meglio, l’aveva, ma non ci voleva pensare. Preferiva fingere che fosse un vago “anni” che si rifiutava ostinatamente di contare. Era stato in un giorno di fine estate. Central Park brulicava di gente: turisti, famiglie coi passeggini, gli inarrestabili joggers in cerca di aria pura, cani al guinzaglio, monopattini e skateboard. E loro, incuranti del fatto che chiunque avrebbe potuto vederli, avevano noleggiato una barchetta sul lago e si erano spinti a remi fin sotto alle fronde di un salice, a mangiare sandwich, bere birra dalla stessa bottiglia, leggere poesie e ridere, parlare, baciarsi, parlare, parlare e ancora ridere.

Più tardi lui l’aveva accompagnata in albergo. Kate in quell’occasione aveva preso una junior suite al ventottesimo piano di un famoso hotel a cinque stelle. Lui le aveva detto che era pazza, lei aveva riso come solo lei sapeva ridere e gli aveva risposto semplicemente: «e quando mi ricapita?».

Ci erano andati insieme, nella suite. E avevano fatto l’amore tutto il pomeriggio e poi tutta la notte. Come se l’amore davvero non l’avessero fatto mai, né tra loro, né con nessun altro. In quel mutuo scoprirsi e riconoscersi, si erano persi e ritrovati l’uno dentro l’altra e si erano tacitamente giurati se non proprio amore eterno, qualcosa che ci andava molto vicino. Attraverso le vetrate, il cielo faceva da coperta blu ai loro corpi nudi e la luna, ormai quasi piena, illuminava a sufficienza perché potessero guardarsi negli occhi senza che dovessero guastare la notte con altre luci. Era stato allora che Kate, col viso posato alla sua spalla e gli occhi ridenti di chi almeno una volta nella vita è davvero felice, si era messa a canticchiare.

Blue Moon
Now I'm no longer alone
Without a dream in my heart
Without a love of my own 

Poi si era voltata verso la luna. «Sai perché ho voluto la suite? Volevo vedere la luna con te. In questa città è quasi sempre nascosta. E invece qui è talmente vicina che sembra di poterla toccare. Guardala, Eric. Guardala con me. La vedi? È quasi blu, come nella canzone.»

Seduto sulla panchina lungo l’Hudson e con la testa fra le mani, Eric fissava lo specchio d’acqua di fronte a lui, schermo liquido su cui la memoria aveva deciso di mandare in onda, anche quella sera e per l’ennesima volta, il film dei suoi ricordi.

Il giorno seguente l’aveva accompagnata all’aeroporto. Se avesse potuto, non l’avrebbe lasciata partire. Ma non ne aveva la forza. Lei, poi, gli pareva tranquilla. Come se non le dispiacesse affatto andar via. E quella sua tranquillità faceva a pugni con il dolore sordo e acuto che invece lui sentiva forte, piantato in mezzo al petto. L’ultima immagine che ricordava era la figura di Kate, stretta dentro ad un abito estivo blu carta da zucchero che, al di là della sbarra del controllo passaporti, gli sorrideva. «E non fare quella faccia, dai, che torno presto!».

Invece, non l’aveva vista più. Non si era mai più sentito davvero vivo, non aveva mai più smesso di cercarla in ogni donna, in ogni sguardo, nelle sfumature dei blu e nelle risate. Lui ridere, poi, non aveva riso più. E quel che era peggio, non aveva mai più smesso di provare quel dolore lancinante in mezzo al petto ogni volta che pensava a lei.

Il blu intenso del cielo si era ormai dileguato cedendo il passo alla notte. Le facciate dei grattacieli scintillavano argentee sull’acqua e si riflettevano tutto attorno, mischiandosi alle altre luci della città. L’aria si era fatta secca e quasi pungente. Fu un brivido a scuotere Eric e strapparlo ai suoi ricordi, riportandolo al presente. Col cuore pesante di sempre, fece un respiro profondo, raccolse le forze e si alzò. Si avviò a passo lento in direzione del parcheggio dell’ufficio, dove aveva lasciato la sua auto al mattino. A Ellen avrebbe detto di essersi dovuto fermare coi francesi, sempre che lei fosse stata ancora alzata ad aspettarlo, ma ne dubitava. Camminando, guardava verso l’alto, in cerca di spiragli di cielo incuneati tra i grattacieli. Sperava tanto di vedere la luna. Era assolutamente certo che anche quella sera fosse blu. Come il suo cuore. E come nella canzone.

Blue Moon
You saw me standing alone
Without a dream in my heart
Without a love of my own