Da quando lei aveva abbassato le luci ogni cosa attorno pareva aver perso il suo colore originale. Il mio portafogli poggiato sul piano lucido della scrivania, le mie scarpe rimaste a metà strada sulla moquette, come se fossero incerte se andare o restare. Forse persino più di me. Il cinturino del mio orologio, che mi ero volutamente tolto subito per non guardarlo. Io che di tempo non ne ho mai ero lì a rubare il tempo a un altro tempo per concedermi del tempo per vivere. Ammesso che esistano le sfumature di nero, in quella stanza c’erano tutte. Io, almeno, riuscivo a scorgerle ovunque.
Avevo saputo che lei era in città quasi per caso. L’avevo cercata dove alloggiava di solito, invano. Prima che la delusione mi afferrasse e mi inducesse a pensare che doveva andare così, mi ero connesso al wifi dell’aeroporto e avevo imbastito una ricerca alla cieca scegliendo una decina di hotel in base alla tipologia degli stessi e appuntandomene il numero di telefono in fretta a penna sul tovagliolo di carta che mi avevan dato poco prima insieme al caffè, nero e bollente, come piace a me. Avevo trascritto i numeri talmente in fretta che pareva dovessero partire da un momento all’altro anche loro, povere schegge di inchiostro nero in fuga. Poi li avevo chiamati, uno ad uno, chiedendo in reception di lei, con la voce ferma e sicura di chi sa quel che fa, che dentro tremavo dovevo saperlo solo io. Nei primi sei hotel, mi avevano detto, desolati ma non troppo, non risultava alcun ospite con quel nome. Prima che la signorina del settimo mi mettesse in comunicazione con la stanza 224 – era stata involontariamente così gentile da fornirmi quella preziosa informazione in più – avevo già riagganciato.
Quattro ore dopo, giusto quanto mi ci era voluto per il volo, l’atterraggio, il recupero del bagaglio e della mia auto e il tragitto per arrivare in città, bussavo alla porta della stanza 224, pregando che la signorina della reception mi avesse detto il numero giusto. O di aver capito bene io, che con la testa non c’ero proprio e, per complicarmi la vita, avevo persino parlato l’idioma locale, che detesto ma capisco. O almeno credo. «Room service» avevo detto, subito dopo aver bussato, mentre nella mia testa faceva capolino l’idea che lei potesse tranquillamente essere ancora fuori, dopotutto eran da poco passate le nove. E invece la porta di lì a poco si aprì ed io venni investito dalla sua risata schietta e da due occhi felici, probabile specchio dei miei.
Ne era seguito un mix di incredulità gioia amore follia brividi parole mani che si stringono occhi che ridono labbra che si ritrovano. Poi lei si era quasi scusata: «Lo so. Non sembro abbastanza sorpresa. È che sì, non ti aspettavo. Ma, sai com’è, in fondo, io ti aspetto sempre… ». Poi, mentre io mi liberavo delle scarpe e del resto, si era addentrata nella stanza, aveva abbassato le luci, sprimacciato il cuscino, spostato il libro dal letto al comodino e sintonizzato il canale radio sul jazz.
Fu allora che scomparvero i colori, cedendo il passo a tutto quel nero. Fu come se una mano invisibile avesse calato una cappa su ogni oggetto scuro ma normalmente dotato di altri distinguo cromatici, ammantandolo e annerendolo come fa il fumo della candela, quasi che tutto volesse armonizzare con quel poco che di nero davvero c’era in quella stanza: i suoi capelli e la sua lingerie. O piuttosto con il nero che, travestitosi da voce a martellarmi nella testa i suoi lo sai che non dovresti essere qui, tentava a forza di insinuarsi dentro di me, quando io sapevo benissimo di non voler essere altrove.
Il cubetto di cioccolata che lei mi mise in bocca poco dopo, staccandolo dalla tavoletta poggiata sul comodino, fu inaspettatamente bianco. Aveva la stessa dolcezza e la stessa consistenza liscia e chiara della sua pelle, che a me, seppur goloso impenitente, risultava persino più attraente. Mi ci tuffai.
Capii mentre l’amavo il perché di tutto quel nero. I colori, tutti i colori del mondo erano dentro di lei, come se lei li avesse assorbiti, anche se non mi era affatto chiaro come ciò fosse potuto accadere. Forse li aveva mangiati, pensai. Aveva aperto quella sua magnifica bocca e li aveva inghiottiti, uno ad uno. Tutti, tranne il nero che doveva invece avere omesso dal suo pasto – non so dire se volutamente o per distrazione – dal momento che era rimasto fuori. Per una frazione di secondo immaginai il cameriere in livrea che avevo incrociato in corridoio – era da lui che avevo preso l’idea di annunciarmi come room service – che, solo qualche ora prima, le porgeva su di un enorme vassoio d’argento una tavolozza di colori e le serviva la cena nel salone ristorante. L’immagine scomparve in un lampo, così com’era venuta. Lasciai che i suoi seni e la sua pelle le si sovrapponessero e mi riportassero al presente.
Poco dopo toccò a me riempirmi di colori. Il nero, ancora una volta, rimase fuori. Quello che aveva tentato di insinuarsi dentro era sparito nell’istante in cui lei mi aveva baciato, mettendo a tacere tutte le voci dentro la mia testa. No, davvero non volevo essere altrove. Semmai era lei il mio altrove. E ora che, mentre l’amavo, potevo viverla e fondermi con lei, sentivo il cuore e la vita e tutti i colori che lei mi regalava (o forse erano i miei che non sapevo più di avere e lei mi aveva soltanto aiutato a ritrovarli) pulsarmi dentro all’unisono, coautori di una sinfonia non scritta. Pensai ad alcune tele di Jason Pollock, imbrattate di schizzi di pittura policroma, e immaginai che la mia anima fosse diventata molto simile ad un suo quadro e poi, di nuovo, non volli pensare più a niente.
Più tardi, mentre mi rivestivo e mi accingevo a lasciare quella stanza – cercando di non pensare al dolore che comportava la sola idea di dover lasciare anche lei e di focalizzarmi su quanto ero stato bene – mi accorsi che gli oggetti intorno a noi erano divenuti ancora più cupi, prede silenziose della mano invisibile e del suo manto nero deputato ad avvolgerli. Persino il cinturino del mio orologio mi parve non aver più ripreso il suo colore originario, nemmeno dopo che lo ebbi rindossato.
Il bacio con cui mi congedai da lei quella sera è il mio ultimo ricordo a colori. Da che mi son lasciato quella porta alle spalle, per dissolvenza, tutto nella mia vita si è tinto di nero. E io, da allora, brancolo nel buio.
questo racconto partecipa (ma anche no) all'
insieme a :
Per favore non chiamarmi Barbie
Zebre e savane
Placida come il fiume
Madeleine
Natale con soffritto
Pedalata nera
Il quadro capovolto seconda parte
Una vita segnata
Nero Livido
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In tutto questo nero, insistito, ipnotico, conturbante, vedo spiccare la cascata di schizzi di colore di Pollock e penso che sia quella, la via d'uscita. Intensa, Frà.
RispondiEliminaAh, l'amour...
RispondiEliminaahhh l'ammore.
RispondiEliminaclap clap clap :D
dio ..senza parole........amore....
RispondiEliminaQuesto nero qui mi piace, eccome se mi piace ;)
RispondiEliminaBrava !
Strani effetti (cromatici) fa l'amore... o è stato il cioccolato?
RispondiEliminabeh talento ne hai poco da dire
RispondiEliminaComplimenti Singlemama, bellissima l'immagine di lei che mangia i colori
RispondiEliminaBeh Averceli quei colori...e quel nero...sigh
RispondiEliminaIl tuo protagonista ha una sensibilità molto molto ma molto femminile (e qui qualcuno dirà che dico stereotipi)
Mi consolo mangiando un pezzetto di cioccolata (nera perchè io sono nera)
mi hai fatto diventare invidiossssssa
complimentissimi ! auguri e buon natale a te e al cucciolo !
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