Mi ero lasciato cadere in quella che, fino a pochi giorni prima, era stata la sua poltrona. Il tonfo sordo che ne era derivato ricordava quello di un sacco di patate accasciatosi sull’asfalto dopo esser stato gettato in malo modo dal carretto dell’ortolano.
Sebbene il suo corpo fisico non fosse ormai più parte di questo mondo, ne avvertivo la presenza muta e ingombrante in mezzo ai suoi mobili e fra le sue cose, forse persino più di prima, come se tuttora si aggirasse per casa furtivamente e controllasse in silenzio le mie mosse.
Sul tavolino ai miei piedi campeggiava la busta che mi aveva consegnato diversi anni prima e sulla quale, con mano allora ancora ferma, aveva scritto a penna blu “Da aprire alla mia morte”. Il ricordo vivido del momento in cui mi aveva dato quella busta, della mia reazione brusca e di come mi aveva subito messo a tacere – io l’ipotesi che lei morisse proprio non la volevo prendere in considerazione – ora che invece la sua morte mi toccava accettarla, mi pareva si svolgesse davanti ai miei occhi come un cortometraggio amatoriale.
Tirai un lungo respiro e mi allungai per prendere la busta. La tenni fra le mani qualche istante e poi mi decisi a lacerarne il lembo superiore. Dal foglio bianco di carta spessa, i tratti decisi d’inchiostro blu mi vennero incontro, muti soldatini tutti messi belli in fila e disposti con grande rigore e pazienza. Non c’era nulla di affrettato nella grafia, che mi appariva anzi risoluta e decisa.
«Arturo, mio caro, se stai leggendo queste parole vuol dire che io ho ormai raggiunto un'altra vita. O un'altra dimensione. O comunque che sto proseguendo il mio cammino altrove e non più su questa terra. Ti conosco fin troppo bene e confido nel tuo amore per me per poter anche solo dubitare che questa busta sia stata aperta anzitempo. Così come son certa che sia tu, ora, a leggere queste poche righe e non qualcun altro. So che custodirai questa busta in un luogo sicuro e lontano da occhi indiscreti e mani curiose, senza nemmeno che io abbia bisogno di chiedertelo.
Quello che voglio dirti è molto semplice: nell’armadio grande della stanza degli ospiti, terza e quarta anta partendo dalla finestra, sul fondo, ci sono due grandi contenitori di stoffa a pois col coperchio. In uno ci sono i miei cappelli. Nell’altro ci sono sciarpe e guanti. In quello, sul fondo, c’è una scatola verde. Vorrei che, una volta finito di leggere questa lettera, tu la andassi a prendere e ne esaminassi il contenuto.
Ti basti sapere che dentro quella scatola c’è una parte molto importante e molto felice della mia vita. Non farti domande inutili, che non troverebbero risposta. Le risposte, Arturo, avrei potuto dartele soltanto io e, se proprio avessi voluto farlo, lo avrei fatto in vita e non certo attraverso uno scritto postumo. È che quelle risposte, in realtà, hanno senso solo per me. E per la mia anima. Se lascio che ora tu ti affacci su quella parte della mia vita sebbene come se tu potessi soltanto sbirciare attraverso uno spiraglio, è solo perché non voglio pensare di essermene andata senza che tu mi abbia conosciuto fino in fondo. O che tu creda che, nella vita, io abbia fondamentalmente solo sofferto. Non è stato così.
Sei libero di fare della scatola e del suo contenuto ciò che meglio credi. Tenerla o buttarla, in fondo per te, che non sei direttamente coinvolto, non dovrebbe fare alcuna differenza.
Solo due cose ti chiedo: rispetto e silenzio.
Non giudicare. Hai comunque in mano soltanto qualche misero frammento di quello che è stato qualcosa di molto vicino all’immenso. Ciò che troverai è la punta dell’iceberg. Tutto il resto è tuttora – giacché la mia anima conta di portarlo con sé ovunque lei sia diretta – dentro di me e di certo non lo si può spiegare.
E, ti prego, non farne parola con nessuno. Ammesso che oltre a me ci sia qualcuno al corrente di quella parte della mia vita, sarà stata una mia precisa scelta l’averla condivisa e sarò eventualmente stata io e io sola a scegliere con chi.
Mi fido di te, ora più che mai. E sono certa che la mia fiducia sia molto ben riposta.
Grazie.
Con l’amore immenso di sempre, mamma.
P.S.: se proprio ti vien da fare qualcosa, sorridi.»
Più che assalito dalla curiosità, ero frastornato e sbalordito, tanto che prima di alzarmi e dirigermi verso l’armadio, rilessi la lettera almeno tre volte, nella vana speranza di trovarci ad ogni nuova scorsa qualche elemento in più. Poi, finalmente, mi decisi.
Non dovetti rovistare a lungo tra i foulard e le sciarpe. La scatola verde era lì.
Era di un verde brillante ma di una tonalità inconsueta. Un verde come in giro se ne vedono pochi, insomma, tranne che forse in natura. Sembrava persino cambiare gradazione di colore a seconda di come vi arrivasse la luce. La scatola era di forma esagonale, ricoperta di morbida pelle, tanto da risultare liscia e piacevole al tatto. Non c’erano lucchetti, né chiusure. Era una semplice scatola con coperchio.
Tornai in salotto, accompagnato dalla muta presenza costante che, non avevo dubbi, mi stava seguendo con aria compiaciuta. Posai la scatola sul tavolo da pranzo ovale e, dopo aver inspirato a fondo, l’aprii.
Il giorno seguente, prima che gli addetti delle pompe funebri chiudessero la bara, chiesi di poter restare solo con lei qualche minuto. Essendo l’unico erede diretto nonché l’unico figlio, il permesso mi fu accordato senza problemi. Al mattino presto, quando ero arrivato e non c’era nessuno, avevo prontamente nascosto la scatola verde sotto al tavolino su cui era posato il crocifisso, giacché la spessa tovaglia di velluto porpora che lo ricopriva toccava terra e non lasciava intravvedere nulla. Rimasto solo, chiusi la porta alle mie spalle, mi chinai a prendere la scatola, la mostrai alla mamma, proprio come se lei potesse vedermi, e la infilai con cura nell’angolo destro in fondo alla bara, accanto ai suoi piedi. Dovetti faticare un poco per non farla sporgere, ma una volta tirato per bene il telo di raso che avrebbe fatto da eterno lenzuolo a quel corpo esanime, fui fiero di constatare che non si vedeva nulla.
Riaprii le porte, feci accomodare i signori che dovevano fare il loro dovere, diedi un bacio in fronte alla mamma, tirai su il telo fino a coprirla tutta e lasciai la stanza con passo deciso. Stampato in faccia avevo lo stesso sorriso sornione che – ne ero assolutamente certo – in quel momento, ovunque fosse, aveva anche lei.
questo racconto partecipa all'EDS
insieme a:
Angela con Opera numero 1
Michele Azzeccagarbugli con La sciarpa
Melusina con Un mare d'erba
Hombre con O' nipote mascalzone
Io con La Prinz verde
Lillina con Fili spezzati
Calikanto con Onda verde
Dario con Consigli
Gabriele con Due distinti signori...
Pendolante con Cambiamenti cromatici
Il Pendolo con L’ego di Dio
Melusina bissa con Telefono casa
Melusina supera se stessa con Kate G.
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Mi è piaciuto, hai architettato bene la trama: OK!
RispondiEliminaesselodicitu sarà vero, sarà! ;-)
EliminaBello però lasci la curiosità
RispondiEliminalettere d'amore no ?
esagonale ha un senso?
Intrigosissimo ...
lettere d'amore è un'opzione, sì, volendo.
Eliminal'esagono l'ho scelto per via del 6. però ho scoperto anche 'sta cosuccia assai intrigante , specie per via delle cose celate... eheheh ...
E all'immaginazione lasci il compito di indovinare il contenuto di quella scatola. Crudele che sei. Intrigante. Ognuno di noi ha la propria scatola
RispondiEliminaverissimo.
Eliminaognuno di noi ha la propria scatola.
e c'è persino chi ne ha più di una...
Molto ben fatto, Fra. E guai a te se aggiungi spiegazioni: le scatole hanno la loro privacy, non è lecito essere troppo curiosi. Brava, brava e brava.
RispondiEliminaorpo! questo commento sì che ė un complimentone! ... grazie.
RispondiEliminae stai serena: non ho intenzione di svelare alcunché.
Che curiosità... verrebbe voglia di una seconda puntata!!!
RispondiEliminaL'essenziale è invisibile al lettore.
RispondiEliminaMi piace il tuo stile!